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Parole degli occhi. Giorgio Bergami 50 anni di fotografia

Focus On N.16, 24/04/2007

Parole degli occhi. Giorgio Bergami 50 anni di fotografia
Palazzo Ducale, sottoporticato (25 aprile – 29 luglio 2007)

Un uomo appollaiato su una ringhiera. In basso i fumi dell’industria, sullo sfondo il mare. Questo il manifesto della mostra 'Parole degli occhi. Giorgio Bergami 50 anni di fotografia', che raccoglie a Palazzo Ducale parte dell'immenso lavoro di Giorgio Bergami da quando, giovanissimo, ha iniziato a fotografare. Il manifesto della mostra ritrae il fotografo a cavalcioni in cima a uno dei gasometri di Cornigliano, il primo dei quali è caduto sabato 21 aprile.

Altre mostre hanno ospitato gli scatti di Bergami. Ma questa volta lo sguardo è più ampio. In occasione dei suoi settant&rsquoanni, il sottoporticato del Ducale è stato letteralmente riempito di sue fotografie. Un percorso attraverso le evoluzioni personali dell'artista-reporter che si intrecciano a quelle della nostra città. Bergami ha fatto cronaca, reportage sociali, ripreso la vita mondana della riviera, ha documentato la vita di paesi stranieri come Cina, Cuba, la Sarajevo della guerra. «La fotografia è sempre stata un mezzo per conoscere le persone», dice lui, che non ama la formalità nello scatto, ma il messaggio.

Genova e i genovesi sono i veri protagonisti di questa mostra. Bergami ha iniziato a ritrarli negli anni Cinquanta. Appena sedicenne inizia a collaborare con l'agenzia Publifoto, che rileverà nel '58: «avevo solo i calzoncini corti, andavo in giro con quelli - racconta - e ho avuto la fortuna di conoscere subito i giornalisti e i reporter più noti in città». Da quella prima esperienza capisce che la sua strada è quella. Ha lavorato tanto nel cinema e nel teatro: «circa duemila spettacoli, che significa cinquemila giornate di lavoro. Fotografare gli attori durante le prove mi è servito anche per i servizi che ho fatto in seguito nelle strade», dice.

Fondamentali le inchieste sulle carceri minorili e sui manicomi. Nel 1969 esce il libro bianco Handicappati non solo si nasce ma si diventa, con sue foto. Nel 1971 produce un servizio all'interno del manicomio di Cogoleto, in cui ritrae bambini legati ai letti; tre anni più tardi entra in quello di Quarto. È l'inizio di un movimento d'opinione che porterà alla legge Basaglia, nel 1978.

I vicoli, molto prima che diventassero sinonimo di movida, sono stati per molto tempo (e sono ancora) il suo campo d'azione. La loro atmosfera e soprattutto gli artigiani, lo hanno sempre ispirato. «Io ero cresciuto in campagna. Quando sono arrivato a Genova, nel centro storico, era come se non mi fossi mosso dal paese». Ma la città sta cambiando: «se non avessero fatto quello scempio, chissà cosa sarebbe oggi il quartiere di Madre di Dio», dice. Con personalissimo stile documenta poi la speculazione edilizia nella circonvallazione a monte degli anni Sessanta.

Il suo è sempre uno sguardo complice. Maurizio Maggiani, introducendo la mostra scrive: Non cercate in Giorgio Bergami un testimone, non lo è. Lui non testimonia, lui abita. La case dei portuali, le principali trasformazioni della città, tante persone comuni. E poi la storia: i moti del '60, l'alluvione del '70, la manifestazione per Guido Rossa. Scorrendo la sale della mostra si ha la sensazione che fosse un po' ovunque, qualsiasi cosa succedesse di importante a Genova, lui c’era.

laquo;Il lavoro di selezione delle immagini è stato durissimo ed entusiasmante - dice Franco Sborgi - ad ogni foto trovavamo uno sguardo stimolante. Non ho mai sentito parlare Bergami di un "bello scatto", lui è attento al tempo e allo spazio, si concentra sulla sequenzialità delle immagini, vuole essere dentro il tempo che racconta». Centralità del messaggio - ovvero "cosa si vuol dire con una foto" - ed un’estrema semplicità dell’immagine: queste le caratteristiche del modo di lavorare del fotografo. E la tecnologia, cosa ne pensa? «Il compito del fotografo è concentrarsi sul soggetto - continua Bergami - se poi ha una macchina che fa le cose più velocemente tanto meglio, e non devi pensare al diaframma, alle lenti, ma solo allo scatto. Non ho mai fotografato tanto come da quando c’è il digitale».

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